La nuova direttiva, pubblicata il 6 marzo scorso, integra le discipline in materia di pratiche commerciali scorrette e diritti dei consumatori nei contratti. Il 6 marzo scorso è stata pubblicata sulla Gazzetta ufficiale dell’Unione europea la direttiva (UE) n. 2024/825 sulla “responsabilizzazione dei consumatori per la transizione verde” (“Direttiva”).
Si tratta di un provvedimento legislativo di grande importanza, volto, attraverso un innalzamento della protezione dei consumatori, a “contribuire al corretto funzionamento del mercato interno” e, conseguentemente, a dare un ulteriore impulso alla transizione verde. Garantendo ai consumatori la possibilità di scegliere prodotti e servizi effettivamente sostenibili, infatti, le imprese si troveranno a operare su di un piano di parità e saranno incentivate a farsi concorrenza anche attraverso un’offerta con caratteristiche ambientali e sociali sempre migliori.
La Direttiva, quindi, tutela indirettamente le imprese più virtuose, che investono correttamente nella transizione ecologica e nella sostenibilità. Al riguardo, la sostenibilità è intesa in senso ampio; i consumatori devono ricevere informazioni chiare e verificabili sulle caratteristiche non solo ambientali , ma anche sociali e relative alla “ circolarità ”, che comprende la durabilità, la riparabilità o la riciclabilità dei prodotti. Le caratteristiche sociali abbracciano, a loro volta, un ampio spettro di informazioni afferenti a tutta la catena del valore di un prodotto, quali, tra le altre, la qualità delle condizioni di lavoro, l’adeguatezza dei salari, la sicurezza sul lavoro, il rispetto dei diritti umani, la parità di genere e il benessere degli animali.
In concreto, la nuova normativa integra le discipline in materia di pratiche commerciali scorrette (tra le quali le comunicazioni pubblicitarie ingannevoli) e di diritti dei consumatori nei contratti (ossia, rispettivamente, le direttive n. 2005/29/CE e n. 2011/83/UE, recepite in Italia in apposite sezioni del Codice del consumo).
Gli Stati membri hanno temposino al 27 marzo 2026 per recepire nei rispettivi ordinamenti le nuove disposizioni, le quali troveranno applicazione a partire dal 27 settembre 2026.
Molte delle nuove disposizioni, però, sono sostanzialmente già in vigore, in quanto cristallizzano interpretazioni amministrative e giurisprudenziali, nonché prassi applicative ben consolidate.
Ad esempio, la Direttiva vieta espressamente di utilizzare asserzioni di sostenibilità – a prescindere dalla forma, quindi testi, immagini (ad esempio, un albero), colori (il “verde”) o suoni:
vaghe o generiche (“verde”, “ecocompatibile”, “rispettoso dell’ambiente”, ecc.), se non accompagnate da un’adeguata dimostrazione del concreto beneficio ambientale o sociale;
relative al prodotto o all’impresa nel loro complesso, quando il beneficio vantato riguardi solo un componente del prodotto o un aspetto del processo produttivo;
che presentano come caratteristiche specifiche del prodotto requisiti che tutti i beni concorrenti sul mercato devono soddisfare per legge.
Ebbene, tali pratiche sono, di fatto, già ora vietate, come chiaramente indicato, ad esempio, dagli Orientamenti della Commissione europea sull’applicazione della disciplina in materia di pratiche commerciali scorrette, da ultimo quelli pubblicati nel 2021.
Detto questo, la Direttiva fornisce alle autorità competenti strumenti normativi sicuramente più incisivi.
Partendo dalle innovazioni alla disciplina in materia di pratiche commerciali scorrette, la Direttiva:
a) vieta di rivendicare un minore impatto o un impatto positivo sull’ambiente in ragione dell’adesione a programmi di compensazione delle emissioni di gas a effetto serra. Sembrerebbe, quindi, che anche comunicazioni del tipo “senza emissioni di CO2 grazie alla compensazione effettuata con il progetto X” non potranno più essere utilizzate;
b) introduce requisiti severi per la comunicazione di “prestazioni ambientali future” (ad esempio, “stiamo lavorando per ridurre le nostre emissioni di carbonio del 50% entro il 2026”). Queste asserzioni devono essere accompagnate da un piano di attuazione “dettagliato e realistico”, nel quale l’impresa indica, tra l’altro, gli step, misurabili e con scadenze temporali determinate, fissati per il raggiungimento dell’obiettivo ambientale, le risorse economiche e gli sviluppi tecnologici dedicati e le verifiche previste, che devono essere condotte da un soggetto terzo, qualificato e indipendente. Le conclusioni delle verifiche dovranno, poi, essere messe a disposizione dei consumatori;
c) vieta espressamente di incentrare i vanti (ambientali, sociali o relativi alla circolarità) su caratteristiche irrilevanti o che nulla hanno a che vedere con il prodotto pubblicizzato (ad esempio, citando dalla Direttiva, “i fogli di carta non contengono plastica”);
d) chiarisce che una comunicazione basata sul raffronto tra le caratteristiche (ambientali, sociali o relative alla circolarità) di prodotti concorrenti deve contenere informazioni sul “metodo di raffronto, sui prodotti e sui fornitori, così come sulle misure predisposte per tenere aggiornate le informazioni”. In sostanza, vengono ripresi i criteri già previsti per la valutazione di liceità della pubblicità comparativa, nell’ottica di garantire che il raffronto abbia a oggetto caratteristiche rilevanti e verificabili di prodotti che svolgono la medesima funzione;
e) vieta di esibire un marchio di sostenibilità che non sia stabilito da autorità pubbliche o non sia basato su un sistema di certificazione che soddisfa specifiche e stringenti condizioni, quali la titolarità in capo a un soggetto terzo indipendente, l’individuazione dei requisiti di accesso al marchio con l’aiuto di esperti e portatori di interessi, la disponibilità al pubblico di detti requisiti, la previsione di procedure di controllo obiettive, condotte da esperti indipendenti sia dal titolare del sistema che dalle imprese. In pratica, le imprese non potranno, tra l’altro, utilizzare marchi o sistemi di certificazioni elaborati internamente dalle stesse imprese;
f) rende illecita la comunicazione commerciale volta a promuovere prodotti oggetto di “ pratiche di obsolescenza precoce programmata ” (ossia, destinati a smettere prematuramente di funzionare correttamente). Il divieto colpisce le imprese che ragionevolmente siano a conoscenza della durata limitata dei beni che vendono;
g) vieta di presentare un aggiornamento del software come necessario, se volto solo a migliorare delle funzionalità. In ogni caso, il consumatore deve essere informato dell’eventuale impatto negativo sul funzionamento dei beni che può derivare dal proposto aggiornamento del software.
Passando ai diritti dei consumatori, questi dovranno essere informati dal venditore, prima della conclusione di un contratto, circa la durabilità e la riparabilità dei prodotti. Laddove si tratti di beni con elementi digitali (ad esempio, una smart TV, un orologio o uno smartphone), contenuti digitali o servizi digitali, i consumatori devono ricevere indicazioni anche in merito al “ periodo durante il quale saranno disponibili aggiornamenti gratuiti del software ”.
È previsto, poi, che la Commissione europea realizzi, entro il 27 settembre 2025, un “ avviso armonizzato ”, che andrà esposto nei punti vendita, e un’“ etichetta armonizzata ”, che potrà essere apposta sui prodotti, per veicolari informazioni in merito, tra l’altro, alla garanzia commerciale di durabilità eventualmente offerta dal produttore e alla garanzia legale di conformità.
Nel commercio online, l’etichetta armonizzata andrà portata all’attenzione del consumatore prima che questi inoltri un ordine che presuppone un obbligo di pagamento.
Inoltre, viene introdotto, tra le informazioni da mettere a disposizione del consumatore prima della conclusione del contratto, un “ indice di riparabilità ” dei prodotti, da definirsi a livello di Unione europea; tale indice dovrebbe fornire indicazioni in merito “ all’idoneità di un bene a essere riparato ”.
In conclusione, la Direttiva impone obblighi più stringenti alle imprese, obbligandole ad adeguarsi per tempo alle nuove disposizioni, anche considerando i riflessi che le stesse possono avere sull’applicazione delle attuali regole.
Molti operatori hanno già avviato processi di verifica interni e investito o programmato di investire in programmi di compliance ad hoc. Ciò avendo in mente che queste regole possono consentire anche di intervenire nei confronti delle imprese che, giocando sul greenwashing , falsano il confronto concorrenziale e impediscono agli operatori virtuosi di sfruttare a pieno i reali sforzi compiuti in ambito ambientale e sociale (oltre a trarre in inganno i consumatori).