Ci sono una serie di fatti accaduti in questi primi 6 mesi dell’anno, che non potranno essere lasciati da parte. Prima di tutto c’è stata una sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea che ha dichiarato invalida la direttiva comunitaria sulla conservazione dei dati (generati o trattati da fornitori di servizi di comunicazioni elettroniche accessibili al pubblico o di una rete pubblica di comunicazioni). Il motivo? Comporta un’ingerenza di vasta portata e particolare gravità (non limitata allo stretto necessario) in due diritti fondamentali: il rispetto della vita privata e la protezione dei dati di carattere personale. I dati da conservare consentono di sapere con quale persona e con quale mezzo un abbonato o un utente registrato ha comunicato, di determinare il momento della comunicazione e il luogo da cui ha avuto origine e di conoscere la frequenza delle comunicazioni dell’abbonato o dell’utente registrato con determinate persone in uno specifico periodo. Secondo i giudici europei tali dati, considerati congiuntamente, possono fornire indicazioni assai precise sulla vita privata dei soggetti i cui dati sono conservati, come le abitudini quotidiane, i luoghi di soggiorno permanente o temporaneo, gli spostamenti giornalieri o di diversa frequenza, le attività svolte, le relazioni sociali e gli ambienti sociali frequentati. La direttiva, inoltre, si applica all’insieme degli individui, dei mezzi di comunicazione elettronica e dei dati relativi al traffico, senza che venga operata alcuna differenziazione, limitazione o eccezione in ragione dell’obiettivo della lotta contro i reati gravi. La Corte ha anche contestato il fatto che la direttiva non impone che i dati siano conservati sul territorio dell’UE, non garantendo, quindi, il pieno controllo da parte di un’autorità indipendente del rispetto delle esigenze di protezione e di sicurezza. Il Presidente dell’Autorità Garante per la privacy italiana, Antonello Soro, ha commentato positivamente la sentenza che “va nella direzione auspicata di una più marcata tutela dei diritti, riequilibrando due valori, sicurezza e privacy, che in questi anni si erano decisamente disallineati”. Soro ha sottolineato: “I dati di traffico non sono informazioni neutre ma rivelano molto della vita privata di tutti noi. Un’indifferenziata conservazione di questi dati per periodi molto lunghi espone quindi a grandi rischi. Inoltre la Corte ha sottolineato l’esigenza che i dati oggetto di conservazione per ragioni di giustizia restino nel territorio dell’Ue con evidente riferimento alle note vicende del Datagate. Occorrerà una revisione dell’attuale sistema nel segno del principio di proporzionalità  e delle garanzie per i cittadini”.

Ma c’è un’altra sentenza della Corte di Giustizia dell’UE che è intervenuta su questi temi, in particolare sul diritto all’oblio. La Corte ha affermato la responsabilità del gestore di un motore di ricerca sul trattamento da esso effettuato dei dati personali che appaiono su pagine pubblicate da terzi. In pratica se facendo una ricerca sul nostro nome, ad esempio su Google, troviamo tra i risultati dei link a pagine web che contengono informazioni su di noi che non ci piacciono (perché violano il nostro diritto fondamentale alla vita privata), possiamo chiedere che quei link vengano rimossi. Secondo la Corte il gestore del motore di ricerca è il responsabile del trattamento dei dati perché è lui a determinarne le finalità e gli strumenti del trattamento stesso. Si tratta, infatti, di dati che toccano potenzialmente una moltitudine di aspetti della vita privata e che, in assenza del motore di ricerca, difficilmente avrebbero potuto essere connesse tra loro. Gli utenti di Internet possono così stabilire un profilo più o meno dettagliato delle persone ricercate. Bisogna quindi cercare un equilibrio tra i diritti al rispetto della vita privata e alla protezione dei dati personali e il legittimo interesse degli utenti di Internet ad alcune informazioni. Equilibrio che dipende sicuramente dalla natura dell’informazione pubblicata e dal suo carattere sensibile per la vita privata della persona coinvolta, ma anche dall’interesse del pubblico a ricevere tale informazione, il quale può variare a seconda del ruolo che tale persona riveste nella vita pubblica.

Sulla questione del diritto all’oblio (ovvero sul diritto della persona interessata di chiedere che dei link verso pagine web siano cancellati dall’elenco di risultati per il fatto che questa persona desideri che le informazioni relative alla sua persona siano oggetto di “oblio” dopo un certo tempo), la Corte rileva che, qualora si constati, in seguito a una richiesta dell’interessato, che l’inclusione di tali link nell’elenco è, allo stato attuale, incompatibile con la direttiva, le informazioni e i link figuranti in tale elenco devono essere cancellati. L’utente può rivolgersi direttamente al gestore del motore di ricerca, che deve prendere in esame la fondatezza della richiesta. In seconda battuta può rivolgersi all’autorità di controllo o giudiziaria.

Lasciando tutti un po’ di “sorpresa”, a pochi giorni da questa sentenza, Google si è subito adeguato alle indicazioni ed ha lanciato il servizio per far valere il “diritto all’oblio”. Compilando un modulo messo a disposizione dal colosso del web, tutti gli utenti possono chiedere la rimozione di link che appaiono dopo una ricerca sul proprio nome, qualora contengano informazioni “inadeguate, irrilevanti o non più rilevanti, o eccessive in relazione agli scopi per cui sono stati pubblicati”. Sarà Google a valutare “ogni singola richiesta”, cercando di “bilanciare i diritti sulla privacy della persona con il diritto di tutti di conoscere e distribuire le informazioni”, riservandosi il compito di stabilire “se i risultati includono informazioni obsolete sull’utente e se le informazioni sono di interesse pubblico, ad esempio se riguardano frodi finanziarie, negligenza professionale, condanne penali o la condotta pubblica di funzionari statali. La mossa di Google di adeguarsi all’ordinamento europeo è stata accolta da tutti come “un fatto positivo”, sulla cui corretta applicazione bisogna, però, verificare. In questo senso, resta di grande importanza il ruolo che potranno svolgere le Autorità nazionali per la privacy, con le quali deve proseguire il proficuo lavoro comune e coordinato già avviato proprio nei confronti di Google e degli altri Big della Rete.

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